Canova e Thorvaldsen. Alle Gallerie d’Italia, Milano

Canova e Thorvaldsen. Alle Gallerie d’Italia, Milano

Se con Canova, "I volti ideali" al GAM", il confronto è diacronico, cioè giocato tra passato e futuro, nella mostra Canova/Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna alle Gallerie d’Italia, in piazza della Scala 6 a Milano, sempre dal 25 ottobre 2019 al 15 marzo 2020, il confronto si svolge sul piano della contemporaneità principalmente tra l’italiano Antonio Canova (1757-1822) e il danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844), che avevano operato a cavallo tra il Neoclassicismo e il Romanticismo, in un periodo tormentato in Europa della guerre napoleoniche.
Il progetto ha preso vita grazie a un enorme sforzo di collaborazione con svariati musei italiani e internazionali, quali il Museo e Gypsotheca Antonio Canova di Possagno, in provincia di Treviso, località che ha visto i natali di Canova, le Gallerie degli Uffizi di Firenze, il Museo Thorvaldsen di Copenaghen, che si è costituito intorno alla produzione di Thorvaldsen quando l’artista era ancora in vita, e il Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo, che ha concesso il gruppo scultoreo canoviano delle Grazie.
Il Sindaco di Milano, Giuseppe Sala, presente all’inaugurazione, ha ringraziato le Gallerie d’Italia, dimostrando apprezzamento per l’apertura all’internazionalità dimostrata, secondo quello che è anche lo spirito del Comune di Milano. Ha ricordato che nel mese di settembre la città meneghina ha avuto più di un milione di turisti, un numero impressionante, se si pensa anche solo a una decina di anni fa. Milano a tutti gli effetti è diventata una città turistica e l’offerta culturale, in particolare artistica, sta giocando una parte significativa. Il sindaco ha sottolineato l’importanza di prepararsi al Natale, un periodo che in passato vedeva la città svuotarsi e che ora è un momento di grande vitalità, in cui vanno rafforzate le iniziative in varie aree della città per renderla attrattiva. In questo senso le Gallerie d’Italia, Palazzo Marino che ospita ogni anno un’opera unica, Palazzo Reale e il Museo del Novecento offrono nell’insieme un grande polo di attrazione, non l’unico, ma certamente importante. Fernando Mazzocca e Stefano Grandesso sono gli infaticabili e sempre disponibili curatori della mostra. Mazzocca ha evidenziato la rivoluzione attuata dal giovane Canova, stabilitosi a Roma dal 1781, e capace di resuscitare una forma d’arte che si era creduta “lingua morta”.

L’Italia conservava le vestigia dell’arte antica, studiata attraverso le copie delle statue romane. Si era passati da Andrea Pisano (1290-1348) a Donatello (1386-1466), a Michelangelo (1475-1564), cioè a un periodo in cui la scultura, come diceva Giorgio Vasari, autore delle Vite, sembrava essere arrivata al suo apice, dopo il quale non avrebbe potuto che regredire.
Canova “dialogava” senza i pregiudizi con Michelangelo e anche con Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), benché in periodo neoclassico non godessero di grandissima fortuna presso i critici perché le loro opere non rientravano nei canoni di bellezza e di armonia allora in voga.
Antonio Canova, dopo la morte improvvisa del padre quando lui aveva solo quattro anni, era stato abbandonato dalla madre e affidato al nonno scalpellino, scultore di lastre tombali, dal carattere ombroso e a tratti crudele. Antonio aveva dimostrato un talento precoce che lo aveva portato già fanciullo a distinguersi per la sua maestria. Riuscì a emanciparsi dal nonno e si trasferì prima a Venezia, all’Accademia, e poi a Roma, dove completò la sua formazione. Conosceva l’inglese, che gli consentiva di intercettare i desideri di una committenza internazionale che si recava nella Città Eterna come tappa del Grand Tour, un viaggio educativo alla scoperta della cultura, della storia e dell’arte.
La tecnica di Canova era innovativa e alquanto produttiva. Dopo il modello in creta della fase ideativa e il calco in gesso con i punti da riportare con il compasso sul marmo, lui si occupava della fase di rifinitura, tanto da considerarsi uno “scultore-pittore”. Con i suoi tocchi d’artista alla luce di una candela generava “forme vive”.
Le sue sculture erano fatte per interagire con chi ne fruiva: ci si poteva girare intorno, addirittura talvolta potevano ruotare sulla base come nel caso dell’Apollino, presente in mostra, oppure venivano ammirate da diverse prospettive con l’ausilio di specchi. I temi affrontati erano universali e trattati attraverso il mito: l’amore, la morte, l’amicizia, l’abbandono. La scultura di Canova non è subordinata all’architettura, non è decorativa né celebrativa.
Stefano Grandesso sottolinea come tra Canova e il danese Thorvaldsen, anche lui fanciullo talentuoso, più giovane di tredici anni, che visse a Roma dal 1797 per quasi quaranta anni, si fosse instaurato un rapporto di competizione fino a farli identificare come Achille ed Ettore.
Canova era visto come simbolo culturale dell’Italia, quindi vicino alla romanità; Thorvaldsen, prossimo alle istanze germaniche, aveva il proprio modello nella grecità.

Così Le Grazie di Canova erano viste come “sentimentali” e quelle di Thorvaldsen come “austere”. Entrambi gli artisti diedero luogo a un loro personale Olimpo di figure mitologiche. Le diverse sale mostrano Le Grazie, Venere, Amore e Psiche, Ebe o Ganimede, quest’ultimo preso in considerazione dal solo Thorvaldsen, che incarnavano un ideale di bellezza giovanile. In un periodo travagliato della storia d’Europa si sperava che questi simboli potessero conciliare l’umanità o, quanto meno, creare consolazione. Entrambi gli artisti furono apprezzati, effigiati e osannati in vita, come dimostrano alcune sezioni della mostra. Questi rivoluzionari maestri della modernità fecero del proprio atelier una fucina di talenti avvalendosi di moltissimi collaboratori. Nell’ampio salone centrale si vedono a confronto Le Grazie, i due pezzi forti della mostra.
Realizzato tra il 1813 e il 1817, a commissionare il gruppo scultoreo delle Grazie di Antonio Canova era stata Joséphine de Beauharnais, da cui Napoleone aveva divorziato per motivi dinastici nel 1809. Joséphine tuttavia era morta di polmonite nel maggio 1814 senza vedere l’opera compiuta. Fu poi il figlio Eugène de Beauharnais a reclamarla.
Delle tre giovani donne, dall'elaborata acconciatura raccolta in nodi, la figura di sinistra mostra il fianco ed è addossata a un pilastro con un festone di fiori; la figura centrale, frontale, che appoggia il capo accanto alla prima, è più alta rispetto alle altre due e crea l’apice di una composizione triangolare; la figura di destra è di spalle e intorno al braccio e alla mano sinistri ha avviluppato un esile panneggio che copre senza appesantire e lega le tre figlie di Zeus, già collegate tra loro da un’onda di morbidi abbracci e di sentimento. Thorvaldsen iniziò a realizzare Le tre grazie con Cupido in marmo di Carrara dopo che Canova aveva ultimato la sua interpretazione di questo soggetto mitologico e aggiunse alle tre Grazie Cupido bambino con la cetra. La giovinetta di destra appoggia graziosamente l’indice sotto il mento della figura centrale. Le figure sono più distaccate tra loro, più essenziali nella capigliatura e nei volumi.

Foto di Stefania Nigretti