A Milano nello spazio delle Cariatidi di Palazzo Reale, in piazza Duomo 12, c’è una mostra dedicata a Emilio Vedova, dal 6 dicembre 2019 al 9 febbraio 2020: sono passati cento anni dalla nascita di questo pittore, scomparso all’età di ottantasette anni, ma non lo si direbbe. Le sue opere, soprattutto quelle degli anni Sessanta e Ottanta, largamente presenti in mostra, rivelano un’enorme carica vitale e sono innovative e dirompenti anche oggi. Sono convinta che il grande pittore veneziano, terzo di sette fratelli, scomparso nel 2006, avrebbe gradito una mostra aperta a tutti, perché teneva all’inclusione soprattutto dei giovani, tanto più che era stato insegnante di tanti ragazzi. Di umile estrazione, figlio di operai e artigiani, aveva sempre lottato per l’equità sociale ed era la dimostrazione vivente di come attraverso l’arte, da lui vissuta con grande passione, fosse possibile liberare lo spirito dall’alienazione e dallo sfruttamento insiti in certi lavori di fatica che aveva provato sulla propria pelle ancora ragazzino.
Emilio Vedova ha manifestato il suo desiderio di dipingere fin da piccolo, quando si recava in piazza San Marco, nella sua Venezia, a guardare con occhi rapiti i tanti pittori. Lo potevi perfino sorprendere mentre raccoglieva i resti di pittura, materia prima di fortuna per cimentarsi lui stesso con i pennelli. La sua lotta contro ogni oppressione, che da ragazzo lo aveva spinto a prendere parte attiva alla Resistenza partigiana, è perfettamente visibile nel gesto libero e deciso che contraddistingue il suo stile più maturo. Vedova si esercitò a lungo con rappresentazioni dal vero, e in questo gli furono utilissimi i lunghi soggiorni a Roma e a Firenze, il primo dei quali patrocinato dallo zio Alfredo, figlio del pittore verista Antonio Mancini (1852-1930), che ne aveva saputo intuire il talento.
Vedova, tuttavia, si diresse in maniera sempre più decisa verso uno stile proprio, non figurativo, prima attratto dalle geometrie poi, dal 1950, decisamente informale, cioè libero da qualsiasi “costrizione”.
Per lui l’estetica perdeva valore a vantaggio dell’etica. In questa sua ansia di libertà, Vedova liberò non solo il proprio gesto, ampio, diretto e spontaneo, ma perfino le tele.
Di grandi dimensioni per accogliere i suoi movimenti, le tele erano capaci di farsi esse stesse elementi artistici, trasformandosi in superfici doppie, cioè disegnate dai due lati, oppure a piani plurimi, in installazioni osservabili da più lati, capaci di liberare il fruitore da una posizione rigida di osservazione, appese, appoggiate su superfici che non fossero soltanto le pareti ma anche il soffitto o il pavimento. Addirittura, nella sua sperimentazione, Vedova prese a dipingere su grandi tele tonde anziché rettangolari, come nel Rinascimento. L’ampio spazio immersivo della mostra, preceduto dalla sala del Piccolo Lucernario che ha il compito di presentare l’autore e mostrarne la biografia e l’excursus negli anni, è la neoclassica sala delle Cariatidi, opera di Giuseppe Piermarini (1734-1808), con il suo stile razionale settecentesco, proprio dell’epoca dei Lumi, sopravvissuta ai bombardamenti del 1943.
Ha subìto un restauro conservativo ma volutamente non ricostruttivo perché fossero evidenti i segni della brutalità della guerra, di ogni guerra. Non per niente questo spazio nel 1951 ospitò Guernica (1937) di Pablo Picasso, impressionato dalla strage provocata dall’aviazione tedesca sulla popolazione inerme della cittadina basca.
La sala non poteva essere più appropriata come spazio espositivo poiché amplifica il contrasto tra l’io razionale e l’io istintuale e grandemente espressivo che si vede in mostra.
Nel caso di Emilio Vedova il conflitto interiore, che riguarda l’io ma è di portata sociale, collettiva, si manifesta con gesti forti, di ribellione. È molto presente l’uso del nero in contrasto con il bianco, e spesso vi è l’aggiunta di pennellate rosse, blu o gialle, colori primari, colori netti, senza sfumature. Una struttura a parallelepipedo esile, di metallo nero, sorregge le luci che illuminano diverse decine di opere mentre una parete obliqua grigio tortora dell’altezza di cinque metri divide la sala in due porzioni: da una parte ci sono le opere degli anni Sessanta che culminano con i Plurimi, “teatralizzazione dei piani pittorici”, dall’altra quelle degli anni Ottanta con i Tondi giganteschi, dall’aspetto di pianeti, nuovi mondi possibili, in un universo che è creatività pura.
Testo e foto di Stefania Nigretti
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