Un potente bagliore scintillò nei suoi occhi (…) poi le sfuggirono dalla bocca queste parole: “E se vedesse il mio letto… Il mio letto è un giardino” (Mi cama es un jardín)
Dieci coperte di lana tessute a mano dalle donne delle comunità rurali della provincia di Santiago del Estero, nell’Argentina centrosettentrionale, sono in mostra al Mudec fino all’8 novembre 2020.
Si tratta di coperte da letto dai colori caldi, in cui domina il rosso, vivacizzate da motivi geometrici, floreali, di stelle o di animali, tessute artigianalmente in due pezze cucite insieme nel senso della lunghezza. Sono della prima metà del Novecento ma il loro stile è senza tempo. Nel 2016 sono state donate al Mudec, museo etnografico di Milano, da Andreina Rocca Bassetti, della famiglia che tanto ha dato in terra di Lombardia alla produzione di tessili per la casa, soprattutto in lino, a partire dal 1830. Andreina ha un forte legame con l’Argentina e nel 2018 anche per il suo impegno rivolto alla valorizzazione delle aree povere delle tessitrici santiagueñe è stata insignita dell’Ambrogino d’oro.
La curatrice della mostra è l’archeologa Carolina Orsini, che svolge anche il compito di conservare opere e manufatti del Mudec.
La conquista spagnola dei territori dell’attuale provincia di Santiago del Estero avvenne a partire dal 1536.
La città che dà nome alla provincia fu fondata sulle rive del fiume Dulce, che non sfocia nell’oceano ma nel grande lago salato interno denominato mar Chiquita.
La data della fondazione fu il 25 luglio 1553, giorno di san Giacomo il Maggiore (Santiago), patrono di Spagna.
Le popolazioni indigene, decimate, furono convertite dai missionari al cristianesimo. Il quichua, una derivazione meridionale della lingua quechua, fu fatto prevalere dagli stessi missionari come lingua comune sui diversi dialetti esistenti fino ad allora e anche le varie etnie furono definite con il termine generico “quichua”. Ben presto gli spagnoli introdussero le pecore e la tessitura della lana come attività economica.
Ma l’arte della tessitura era già praticata dalle popolazioni indigene: la civiltà inca aveva utilizzato lane di lama, alpaca e vigogna per creare tessuti e arazzi di grande raffinatezza.
Le discendenti degli Inca trasformarono la lana di pecora in manufatti preziosi: in essi attraverso generazioni di donne si è riversata e tramandata la sapienza umile e orgogliosa di una intera civiltà. La scelta dei soggetti, delle trame, dei colori accesi è un richiamo continuo alla vegetazione lussureggiante dei tempi antichi, quando il fiume Dulce, come il Nilo degli Egizi, cospargeva di fertile limo i campi; quando il bosco tipico del bioma originario era rigoglioso e offriva rifugio ai grandi felini come il giaguaro e la pantera; quando i cervi di palude non erano animali in via di estinzione e le zone umide erano l’habitat ideale di numerosi uccelli acquatici e del caimano. Tutto questo si è riversato nei motivi policromi precolombiani dei tessuti, che testimoniano la resilienza delle donne e la continuità con un mondo scomparso.
La tessitura è stata per trecento anni l’economia circolare del “monte quichua”, dove la parola “monte” significa in realtà “bosco”.
Il sottobosco prossimo ai villaggi rurali provvedeva all’alimentazione delle pecore, dalle quali si ricavava la lana con la tosatura; poi vi erano le attività di filatura, di tintura delle matasse con pigmenti naturali e la fissazione del colore con mordenti sempre naturali, come la cenere di alcuni legni; infine c’era la tessitura.
Con l’arrivo della ferrovia nella metà dell’Ottocento, con la meccanizzazione dei processi di tessitura, con l’uso di coloranti artificiali contenenti anilina non più legati al territorio e a una sapienza millenaria, l’attività decadde. Continuò però a essere svolta localmente dalle donne per necessità legate all’economia familiare e questo ha consentito in tempi recenti il recupero, per esempio, delle antiche tecniche di colorazione della lana.
Nel frattempo già alla fine dell’Ottocento era mutato radicalmente anche il clima atmosferico e gli spazi verdi intorno ai villaggi si erano diradati per il diboscamento dovuto allo sfruttamento di grandi compagnie di legname. I terreni a vocazione agricola si sono progressivamente impoveriti per la scarsità di precipitazioni e per la coltivazione intensiva di alimenti richiedenti elevato apporto idrico, come la soia da esportazione. Le mimosacee e le cactacee, tipiche delle zone aride, hanno cominciato a colonizzare il territorio.
A Santiago del Estero vi sono fortissime escursioni termiche, che possono superare anche i venti gradi centigradi. Il freddo notturno giustifica l’uso di indumenti e coperte di lana; mentre il caldo diurno si fa rovente nei mesi come fine dicembre e gennaio, che per noi cadono in inverno ma nell’emisfero australe cadono in estate.
È in questo clima estremo che lo scrittore, poeta e archeologo per passione Bernardo Canal Feijoo (1897-1982), nato a Santiago del Estero ma vissuto a Buenos Aires, amico di Borges, ha scritto nel suo Ensayo sobre la expresión popular artística en Santiago, del 1937: "Era una regione arida, molto più arida di altre della Provincia. Di un’aridità desolante. Di un’arida desolazione. C’era un cane magro che non abbaiava, alcune pecore con la testa ricurva che non belavano, senza dubbio perché nessuno poteva ascoltare la loro voce (…) Io stesso, lo confesso, mi sentivo fiacco e annichilito. E solo il mio automatico vagare mi portò al ranchito (…) D’un tratto inciampai in “quella”. Dico che sono inciampato, ma in realtà “quella” mi è venuta addosso, mi ha sbarrato la strada in maniera aggressiva. Era una coperta di Santiago stesa al sole tra due pali. Era tessuta in rosso, giallo e verde, con fasci, lame, e zigzag e macchie che brillavano, splendevano e scoppiettavano, in esplosioni, proiezioni e fiammate (...) Accanto ad alcuni pali c’era una donna in nero (...) indicando la coperta con la mano le ho detto: “Carina!”. Fauna mai vista, flora fantastica, triangoli, segni a gradoni, misteriosi rettili, soli, lune e stelle di cieli ignorati."
È proprio vero che la mano che trama tra i quattro pali del telaio, “il giardino” dell’anima, conosce la magia della creazione divina.
Completa la mostra sui tessuti del “monte quichua” un toccante film-documentario del 2020, Huarmis Sachamantas - Le donne del telaio, per la regia di Federico Ferrario. Gira intorno alla figura di Berna Paz (1931-2020), tessitrice alla cui memoria è dedicato.
Si vede come attraverso movimenti pazienti e conoscenze trasmesse di madre in figlia, le donne abbiano fatto propri saperi antichi: la conoscenza delle lane, la creazione di semplici telai di legno grezzo, le tinture ricavate dalla bollitura di fiori, foglie, bucce, cortecce o resine (come la “llora”, tipica di Santiago del Estero), il modo di fissare i colori per tramandarli intatti alle generazioni future. Tra i contributi, l’intervento illuminante dell’antropologa Ruth Corcuera, che dagli anni Settanta studia i tessuti popolari di queste zone.
In Italia, si ricorda l’artista sarda Maria Lai (1919-2013) che a partire dagli anni Settanta, celebrò il telaio come strumento arcaico delle donne in diverse opere polimateriche, come il Telaio del meriggio, del 1970, conservato a Ulassai, il suo paese di origine nella provincia di Nuoro. Per lei il telaio era una metafora della vita: nella tessitura il singolo filo si lega agli altri, dando luogo a una rete fitta di trame.
Ogni filo ha senso in rapporto all’insieme e contribuisce a un disegno, che è la comunità stessa, di cui le donne sono custodi.
Sempre a Ulassai, l’8 settembre 1981 Maria Lai è stata artefice della prima opera relazionale italiana: Legarsi alla montagna. Gli abitanti di tutte le età hanno partecipato alla realizzazione di un’immensa “tessitura” fatta di chilometri di nastri azzurri, per legare, metaforicamente e non, le case di ogni famiglia e le vie del paese tra loro e alla montagna su cui ergevano. Una leggenda di Ulassai indicava il nastro come elemento salvifico.
E il ruolo di “collegamento” con il luogo di appartenenza vale anche per le tessitrici dei villaggi rurali di Santiago del Estero, che hanno visto i loro cari emigrare in cerca di lavoro nelle grandi città.
La povertà ha fatto sì che i paesi si svuotassero e le donne più anziane rimanessero con i loro telai, custodi silenziose di un mondo che si stava perdendo. Le coperte tessute a mano sono diventate allora un ricordo prezioso da tramandare ai figli, spesso con tanto di dedica delle mamme ricamata ai bordi.
Alcune di queste coperte di uso quotidiano ma anche di grande richiamo affettivo, dopo avere avuto estimatori privati che, durante i loro viaggi, le acquistavano, arricchiscono adesso anche i Musei.
Si è dato finalmente un valore collettivo a queste produzioni, dato che il retaggio dei popoli della Terra non passa solo attraverso il linguaggio verbale ma anche attraverso quello che “raccontano” i loro manufatti, come possono essere le ceramiche e, appunto, i tessuti.
Testo e foto di Stefania Nigretti
Tutti i diritti riservati
Orari: Venerdì, Sabato e Domenica dalle 11.00 alle 18.00
Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria
Info e prenotazione: www.mudec.it | Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.